Lettura dei Video

Sul potenziale formativo dei video narrativi de “I luoghi della cura”

di Vincenzo Alastra

 

Istruzioni per l’uso dei tre video con finalità formative

Ognuno dei tre video narrativi ospitati in questo sito può essere utilizzato:

    • per più obiettivi formativi
    • per varie categorie di “fruitori”
    • in diversi setting formativi (informali, laboratoristici, nell’ambito di percorsi più tradizionali imperniati su lezioni frontali, ecc.)

tutti contesti questi che comunque intendono andare oltre i modelli educativi di tipo addestrativo-istruttivo, sostanziando quella che è stata definita una prospettiva di “pedagogia narrativa” (Zannini, 2008).

In particolare, si propone qui di accompagnare la visione dei video narrativi con un successivo confronto, meglio se in piccolo gruppo. I temi che possono essere focalizzati sono diversi e potranno soprattutto essere meglio individuati e scaturire in base agli interessi e alle specificità degli stessi fruitori (siano essi infermieri, medici, psicologi, educatori, o altri operatori sanitari e della cura quali, ad esempio, gli assistenti sociali, i formatori stessi, ed altri ancora).
Come messo ben in luce da una cospicua e fiorente letteratura (Cattorini, 2003; Agosti, 2004; Cortese e Ghislieri, 2004; Cappa e Mancino, 2005; Bert, 2006; D’Incerti, Santoro e Varchetta, 2007), un contesto formativo può prevedere diversificati approcci o stili alla visione di un materiale narrativo video, svariati strumenti e distinte metodologie di utilizzo. Qui è sufficiente proporre, in ordine sparso, alcune “piste” di lavoro, evidenziando, in primo luogo, come possa essere particolarmente formativo porre l’accento sui vissuti e sulle emozioni provate dai formandi e dal formatore nel corso della visione dei filmati e dei successivi momenti di confronto. Alcune opportunità rimandano alla possibilità di soffermarsi, ad esempio, sulle immagini che tratteggiano le peculiarità del contesto domiciliare e l’unicità, irripetibilità e specificità della singola storia, prestando così attenzione a quanto un testo narrativo venga a conformarsi secondo un paradigma idiografico, presenti cioè rappresentazioni singolari e contingenti, che non possono essere generalizzate (Jedlowski, 2000: 203).
Si può poi andare alla ricerca delle “psicologie” dei protagonisti, del tema, dei temi e delle prospettive di lettura che emergono dalla visione-fruizione di ogni singolo filmato considerato nella sua interezza. Si può anche decidere di mettere a fuoco solo alcune sequenze significative (Cortese e Ghislieri, 2004), quelle cioè intorno alle quali si concentrano alcune problematiche su cui si intende polarizzare il lavoro formativo.
Nell’ambito di un percorso formativo è quindi possibile utilizzare anche questi video secondo i diversi possibili stili tratteggiati da L. Zannini (Zannini, 2008: 175-184).

In tal senso, ogni filmato può allora essere considerato in chiave simbolica, come composto da più messaggi e segni da decifrare o da raccogliere. In questo caso si può considerare il testo con uno stile analogico e guidare-orientare l’osservatore attraverso mandati definiti e funzionali, facendone un uso pragmatico e, per molti versi, programmato, in quanto il filmato viene ritenuto direttamente o analogicamente esemplificativo della tematica o problematica su cui verte l’intervento formativo. In alternativa, può essere abbracciato uno stile esistenziale-autoformativo e impiegare i film per “scoprire” le tante verità e i significati possibili che questi filmati possono sollecitare ad esprimere. Si tratta allora di andare alla ricerca ed evidenziare quanto può essere condiviso in un gruppo di osservatori (Agosti, 2004), accogliendo con pari dignità e valore tutti questi possibili e diversi significati, orientando il confronto sui significati (convergenti o meno che siano) attribuiti ai comportamenti messi in atto dai protagonisti dell’interazione, sui criteri che hanno guidato le diverse decisioni e azioni intraprese dal professionista e dal paziente, ecc..
Le video narrazioni possono così innescare e alimentare un confronto sulle esperienze professionali dei discenti, andando alla ricerca di vecchi e nuovi significati (Cappa, 2005 : 27). I film possono inoltre essere utilizzati per far emergere aspetti latenti della pratica professionale, per pensare e riflettere sull’esperienza professionale, a partire dai diversi segni (segnali e simboli) disseminati nei film stessi, in uno stile, appunto, semeiotico-clinico, uno stile assimilabile, sempre secondo L. Zannini (Zannini, 2008: 180), a quell’approccio clinico nella formazione magistralmente teorizzato da R. Massa (Massa, 1992). In tal modo, si potrà pervenire ad altre narrazioni, sia in forma orale che scritta, alle storie professionali dei componenti il gruppo in formazione, “trattando” tutte queste narrazioni come incisivi dispositivi formativi (come ad esempio accade nei laboratori narrativo-sperienziali fondati sulla scrittura condotti nel contesto della ASL BI).
Proprio quest’ultima proposta di lavoro permetterebbe di constatare come le pratiche narrative diano spontaneamente luogo alla comparsa di mondi narrati che si affiancano e si intrecciano con i mondi della vita, con gli spazi e i tempi dell’esperienza, ampliandoli, permettendo cioè ai soggetti coinvolti di muoversi in altri spazi e tempi (Jedlowski, 2013: 19).

Ancora un altro impiego di questo materiale narrativo in ambito formativo rimanda, infine, ad alcune possibili pratiche di creative-writing (Archer, 1998) che potrebbero scaturire naturalmente, od essere conseguenti a particolari mandati proposti ai discenti dopo la visione di ognuno di questi filmati. A questo riguardo, ad esempio, si potrebbe formulare la consegna ai discenti di provare ad esprimere in forma scritta il punto di vista del paziente, i suoi vissuti: in merito alla relazione e storia di malattia e di cura, ai rapporti intrattenuti con altri attori del sistema di cura e, più in generale, con tutto ciò che non viene messo in parola, esplicitato nel filmato. Più in dettaglio, e qui ancor più emergerebbe appunto la vena creativa, i discenti, immedesimandosi nel paziente, potrebbero cimentarsi nella scrittura di una lettera indirizzata specificatamente a quell’operatore protagonista di quell’irripetibile storia di cura, potrebbero anche provare ad immaginare-fantasticare la storia di vita di quel paziente, a partire dalla conoscenza personale (De Monticelli, 1998; Zannini, 2008) che emerge, nel video. Analogamente si potrebbe procedere anche con altre forme espressive, attraverso la messa in scena di un monologo, in una simulata, ecc..

Per concludere queste annotazioni va ancora sottolineato che queste proposte di utilizzo dei filmati in contesti formativi si collocano tutte all’interno di una prospettiva formativa che insiste sullo sviluppo dell’identità professionale dei “discenti”, sulla loro capacità di pensare, riflettere e prendere decisioni (Schön, 2006), sulla capacità ermeneutica e di attribuzione di significato e, soprattutto, sulla loro sensibilità o saggezza etica oltre che strumentale o operativa (Mortari 2002; 2003; Alastra 2014); tutte competenze queste centrali per i professionisti della cura (Mortari, 2006; Mortari e Saiani 2013), essenziali per la loro crescita in quanto attinenti la loro essenza di individui (Zannini, 2008 : 140-141).

 

L’accento sulla conoscenza personale (conoscere il malato, conoscere se stessi)

Come sopra accennato, dai video emerge l’importanza di accedere a una conoscenza personale del paziente che è cosa ben diversa da quella che posso avere di un fenomeno, in una prospettiva oggettivante: «Se per approfondire la conoscenza di una persona che ho appena incontrato le girassi intorno – per vederla da tutti i suoi lati -, cominciando poi a tastare la sua consistenza, la sua solidità, la sua tenuta, grosso modo come esplorerei le proprietà di una poltrona, non agirei soltanto in modo scortese, ma ontologicamente del tutto inappropriato» (De Monticelli, 1998: 34; cit. da Zannini, 2008: 6).

Questa conoscenza dell’individuale «rimanda a una trascendenza che non è “tutta lì” e, soprattutto, non è completamente afferrabile» (Zannini, 2008: 4). La conoscenza personale non è quindi riducibile alla conoscenza della malattia biologica che, pur imprescindibilmente, deve essere dimostrata nei contesti di cura. Una domanda a questo punto ci può aiutare a mettere ben in evidenza ciò che caratterizza appunto questa conoscenza personale: quando possiamo dire di avere davvero raggiunto la conoscenza di un individuo? «La conoscenza personale è sempre anche conoscenza di sé (…) la conoscenza personale non solo ‘si fa’, ma anche ‘ci fa’» (De Monticelli, 1998: 144).

Le proposte formative qui avanzate andrebbero armonizzate secondo questa prospettiva di conoscenza personale.

In virtù di ciò gli operatori partecipanti a queste iniziative dovrebbero quindi coinvolgersi a partire da una conoscenza che dovrebbero coltivare di se stessi, dal capire chi si è e si può essere veramente. Questa sottolineatura pone in evidenza il fatto che le finalità formative di questo genere di iniziative avrebbe quindi a che fare con il ben-essere di questi operatori, con la loro possibilità di realizzare pienamente se stessi, con la buona vita dei professionisti della cura. La conoscenza personale attiene fenomeni che non possono essere oggettivati, misurati, quantificati e stiamo allora parlando di itinerari formativi assai distanti dalle modalità oggi prevalenti negli attuali contesti organizzativi impregnati da un più generale atteggiamento “quantofrenico” (Morin, 1999). Dopo la visione di questi filmati si ritiene che possa essere legittimo domandarsi se si è fatta esperienza, anche solo in minima parte, di una vera conoscenza dell’altro e di sé, se ciò ha consentito, di mettere a fuoco e di sentire più vicine, anche solo per pochi istanti, in una connessione fatta di vibrazioni e armonie diverse, le “cose” che stanno a cuore agli operatori.

Più che fornire risposte, queste proposte intendono animare domande larghe e profonde, domande generative di senso, che facciano pensare e non solo conoscere una realtà (anche con una tensione etica: cosa è bene? Cosa è bello? Cosa è giusto? Quale uso delle conoscenze?); domande circolari, ovvero domande riflessive che sollecitino i partecipanti a esprimere i loro diversi punti di vista sulle storie oggetto di confronto.Da questo punto di vista, si potrebbe dire che l’intera operazione (di realizzazione del laboratorio narrativo riflessivo a cui si è accompagnata poi la realizzazione dei video narrativi)  è stata mossa dal desiderio di «mettere in comune materia per pensare» (Mortari, 2002: 141) e alimentare pensiero riflessivo intorno al mondo delle cure domiciliari e non da un pensare calcolante che si prefigge di garantire il dominio sulle cose (Mortari, 2008: 13).

Questo era il tipo di intento perseguito con questi documentari di creazione: avere a che fare con un desiderio di significato, con la conoscenza personale, con fenomeni non spiegabili con teorie generali, fenomeni unici e irripetibili che rimandano semmai ad esperienze”vicine” al cuore degli operatori, alla possibilità di essere com-presi, che pongono l’accento non solo sul soggetto in formazione, ma intendono collocare il professionista della cura, più propriamente, nella posizione di soggetto della formazione (Formenti, 1998: 17).

 

Il professionista della cura come professionista narrativo

Un’altra serie di considerazioni concerne il fatto che l’insieme di questi tre video narrativi consente di cogliere alcuni tratti essenziali del profilo di quell’operatore che, in letteratura, è stato opportunamente tratteggiato come “narrativo” (Castiglioni, 2012: 201-208). In questi filmati l’operatore in questione è un infermiere ma, per analogia, i discorsi e le osservazioni ad esso riferibili potrebbero essere estesi anche ad un medico, ad uno psicologo, ecc… La qualificazione di “narrativo” rimanda cioè ad un operatore che abbraccia questa prospettiva e, così facendo, dimostra un certo atteggiamento mentale narrativo, un esserci in relazione con il paziente (Bert, 2007 : 99; Masini, 2005: 7), in uno sfondo o ambiente narrativo (Demetrio, 2012), in uno spazio relazionale pensato e agito per pensare insieme, per condividere l’idea di un progetto di cura inteso non solo in senso terapeutico, ma anche esistenziale.
È, quello “narrativo”, un operatore «consapevole in modo critico e trasformativo, dei condizionamenti culturali, contestuali, sociali e (auto)biografici attraverso i quali passa la sua pratica (…) e dunque anche il suo modo di relazionarsi con il paziente» (Castiglioni, 2012: 201). È, questo professionista della cura, un professionista che, grazie alla sua personale formazione e alla sua esperienza clinica, ha saputo sviluppare competenze narrativo-autobiografiche e riflessive, che è quindi in grado di riconoscersi con i propri limiti e, soprattutto, di abbandonare la convinzione di essere strutturalmente deputato a sapere cosa è meglio fare per il paziente.
In sintesi, questo tipo di professionista della cura è portatore di una pratica sanitaria che, in quanto orientata in senso narrativo, si prefigge di coinvolgere il paziente ed il suo contesto relazionale di riferimento, in maniera tale da rendere tutti gli attori di questo sistema co-protagonisti del processo di cura.

 

Sulla necessità di predisporsi a vedere (non solo guardare) i video narrativi

Non importa quello che stai guardando, ma quello che sai vedere.Henry David Thoreau

Un’ultimissima serie di raccomandazioni prima, di predisporsi alla visione dei filmati, concerne la marcatura della differenza tra il senso del vedere e quello del guardare. Per rileggere le storie di malattia e di cura presentate nei tre video-frammenti narrativi qui ospitati è sufficiente guardare questi video o, piuttosto, occorre porsi nella predisposizione per vedere? È questa la domanda che può, a mio avviso, contribuire a pre-orientare opportunamente la fruizione formativa di questi video.

Guardare e vedere non sono sinonimi, non si riferiscono alla stessa azione cognitiva ed esistenziale, hanno significati profondamente diversi sui quali è opportuno soffermarsi.

Vedere ha a che fare con il capire, lo scoprire e l’interpretare, è una parola che rimanda ad una certa tensione emotiva, richiama un pathos vivo, una partecipazione, un coinvolgimento dell’osservatore rispetto alla scena osservata. Dopo aver visto questi video potrei dire: “Ho visto la fiducia e il reciproco rispetto che caratterizza queste relazioni”, che è cosa ben diversa dal dire: “Ho guardato la fiducia e il reciproco rispetto che caratterizza queste relazioni”.

In questo secondo caso la connotazione emotiva e il mio coinvolgimento attivo nella costruzione di quanto osservato sono posti in secondo piano e lasciano più spazio ad un atteggiamento distaccato, di tipo analitico, sicuramente più freddo. L’azione osservativa, gli atti compiuti da colui che osserva, sono esteriormente identici sia nel caso del vedere che in quello del guardare, ma sono diversi nella sostanza: solo nel primo caso si è attori di una presa di coscienza che ci conduce ad un comprensione di quanto osservato. Ciò genera tutta una serie di effetti per chi osserva, consentendogli di aprirsi ad un mondo di significati, ad una qualche (anche se pur sempre provvisoria) occasione interpretativa.

Nel caso del guardare non c’è cammino, non c’è punto di approdo. Guardando non andiamo, consapevolmente, da nessuna parte.

Guardare è condizione necessaria ma non sufficiente per vedere.

Vedere è quindi un andare oltre il guardare. Chi vede com-prende l’oggetto guardato. Prende con sé l’oggetto osservato e, così facendo, assume la responsabilità della comprensione acquisita, si pone in una postura autoriale, palesandosi, uscendo allo scoperto, mettendosi in gioco, azzardando…

Vedere è vedersi! E ciò richiede anche una certa disponibilità, forse anche un certo coraggio.

Molte persone preferiscono guardarsi, ma non vedersi.

Con questo atteggiamento, con questa marcatura sul vedere, sarà allora possibile cogliere, con più immediatezza e profondità, tutta una serie di fenomeni che non sono tutti lì, oggettivamente presenti, in maniera del tutto indipendente dall’osservatore, dalle relazioni, dalle storie e dal contesto. A queste condizioni, ad esempio, sarà possibile cogliere con quale naturalezza e dignità una paziente possa raccontare (come nel filmato: “Mara e Rosa”), la propria gravissima malattia, per cercare di dare un senso, un significato più accettabile (Bonino, 2006), a questa esperienza apicale di vita (Demetrio, 2008). È poi possibile constatare come il dialogo e il confronto sulla propria esperienza di malattia possa essere poi facilitato dall’incontro con un’infermiera in grado di ascoltare e comprendere questi vissuti, ovvero capace di vivere con empatia e ascolto la relazione con la paziente.
Si può poi apprezzare, come nel caso: “Cristina e Aldo”, la statura del professionista pratico, di chi è chiamato a creare strategie e soluzioni tenendo conto della soggettività del paziente, delle specificità della situazione, adoperandosi per esprimere, appunto, in maniera situata (Alastra, Kaneklin e Scaratti, 2012), non generalizzabile, il proprio sapere esperienziale, un sapere fondato sull’esperienza rivisitata e condivisa con il paziente stesso e con la rete dei servizi e delle risorse presenti e insistenti sul caso, che si sviluppa a partire da un governo di questa complessità, da una sensibilità e da un rispetto dei valori e degli atteggiamenti non comune.
Il video: “Laura e Sergio”, dimostra infine, in maniera tangibile e creativa, come si possa sostanziare una relazione fondata su una alleanza terapeutica forte e si possa dare evidenza della, poco felicemente detta, umanizzazione della cura. Si tratta, in particolare, di alcune immagini, pochi gesti e attenzioni semplici e reciproche, messi in atto dai protagonisti della vicenda e sapientemente intercettati dal regista. In particolare la sequenza “della telefonata” appare così davvero pregna di umanità e di sbocchi poetici rivitalizzanti.
Queste tre storie di malattia e di cura ci permettono di cogliere la prospettiva dei pazienti unitamente ai valori di riferimento dei professionisti in queste storie coinvolti, ci consentono di apprezzare quanto questi contesti relazionali possano incidere sui vissuti di malattia, sulle posizioni professionali assunte rispetto a determinate problematiche e con quali conseguenze positive per entrambi i protagonisti.
L’invito che per quanto fin qui argomentato può discendere in chiave formativa è, quindi, quello di prendere coscienza dell’oggetto osservato fino a vederlo e, a questo punto, ad occuparsi di ciò che si è visto. Solo chi si spinge fino a vedere può, auspicabilmente, fermarsi allo scopo di aver cura dell’oggetto visto.
Dico auspicabilmente perché tutto questo non è scontato, non capita automaticamente e nemmeno senza fatica. È sempre necessaria una propensione alla cura, anche nei confronti di se stessi, una presa di responsabilità che ognuno di noi può, solo liberamente, esprimere.

 

E con questo lascio a chi lo vorrà ogni possibile ulteriore commento e suggerimento per far buon uso di questo materiale “didattico”.
Buona visione!

 

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